(venerdì 5 maggio alla scuola DURGA, luogo meraviglioso e di persone meravigliose – diverse moltitudini di ‘fenomeni’ – dove sono docente di un corso per coach professionisti, parlerò degli alibi, di come ci incatenino, di come sia importante cambiare prospettiva sui problemi, posizionandoci ‘dentro’, se il nostro obiettivo è quello di cambiare. e lo farò partendo da un discorso di julio velasco. e non vi parlerò dei miei ex lavori, giuro! se verrete ci farà piacere! la serata è aperta a tutti e gratutita. il link all’iniziativa e i dettagli, sono tutti qui: http://c3g9f.s51.it/frontend/
durante il liceo e per un bel pezzo dei miei studi all’università, quando giocava la generazione di fenomeni io non ero davanti alle tele: io ero dentro! 🙂 c’era ancora il tubo catodico.
le emozioni che mi hanno regalato quei ragazzi, con le loro vittorie, sono fortissime – e viene tutto via con me. sogni che si trasformavano in una realtà inimmaginabile fino a poco prima, passioni, a volte delusioni e incazzature, soprattutto quelle dell’allenatore, che allora io vedevo osservare, agitarsi, gesticolare, urlare e poi certo alla fine anche saper gioire e trionfare. io ero concentrata sui giocatori, sulle loro stranezze, sulla partita, sul conteggio dei punti. poi certo c’era questo allenatore.
allora io guardavo quest’uomo, argentino, che parlava con un accento buffo, e mai mi sarei prefigurata una serie di cose che nella vita poi mi sono ‘capitate’, un po’ per caso, molte per scelta.
prima di tutto non avevo minimamente capito che questo allenatore fosse uno dei primi coach sportivi, se non il primo, che mettesse piede in italia. e che quindi questa serie improvvisa e apparentemente inspiegabile di successi della nazionale di pallavolo fosse dovuta anche – ora direi ‘soprattutto’ – al suo approccio da coach nel gestire la squadra.
non avrei mai immaginato nemmeno che nella vita sarei diventata coach e che i discorsi di coaching di julio velasco, con tanta profondità quanta ironia, mi avrebbero aperto mondi per la mia vita (non certo nello sport, vista la mia proverbiale pigrizia) uno dei quali è stato appunto cambiare completamente lavoro. a suo tempo studiavo alla facoltà di fisica e mi prefiguravo un lavoro scientifico per la mia mente scientifica.
non vi tedierò con la successione dei vari lavori che ho fatto, come in un curriculum vitae! vi basti sapere che ad un certo punto della mia vita mi sono resa perfettamente conto che il lavoro che io avevo immaginato per me non c’era, che da più di 10 anni mi stavo accanendo nel tentativo vano di prendermi quelle piccole soddisfazioni che io reputavo fossero il ‘minimo sindacale’, sapendo benissimo che non me le avrebbero concesse, e che la storia che ‘i miei capi non capiscono un caxo, sono ignoranti, non sono all’altezza, sono mediocri, non mi capiscono, l’azienda non mi considera, l’azienda ha metodi comunicativi arretrati di almeno 20 anni (nel senso che non li ha), il problema è il periodo economico’ era un insieme di grandi verità a suo modo – sono cose che penso nitidamente tuttora – ed era al tempo stesso il grande freno che mi teneva ferma nell’aspettativa. l’aspettativa di un mondo di lavoro meritocratico, dove se fai ottieni! e dove magari il dirigente a cui fai riferimento, abbia prima di tutto dei neuroni collegati tra loro e soprattutto sia disposto a farli andare piuttosto di tenerli a riposo per il fine settimana e che il collega con cui lavori da anni voglia condividere le attività con te al posto che tenertele gelosamente celate come se lui lavorasse alla nasa alla scoperta di esopianeti. la generazione di fenomeni con cui lavoravo io tutti i giorni era questa. e tante tante tante altre cose che per me erano problemi gravi, che riconoscevo agli altri. il problema erano ‘gli altri’.
un giorno capii che il problema reale era che tutte queste cose per gli altri non erano assolutamente un problema: erano semplicemente scelte. scelte personali. scelte aziendali. legittime. ecco la folgorazione sulla via di damasco. il problema era mio.
ero io quella che non ne poteva più, che non voleva più rinchiudersi in quegli uffici senza aria a produrre il nulla cosmico, che tutti sapevamo non servisse a nessuno, e che doveva però essere prodotto con scadenze pressanti, di fretta, possibilmente sbagliato, e impiegando il maggior numero possibile di persone per dare così una dignità e un’importanza ad un lavoro che non era nemmeno degno della definizione di ‘lavoro’. a tutti gli altri stava bene così. alcuni perchè guadagnavano veramente tanto, alcuni perchè fuori di lì non avrebbero saputo fare altro, molti perchè erano serenamente rassegnati ad una non vita dalle 8.30 alle 17.45 di ogni giorno lavorativo.
bene. una volta compreso che il problema era mio, la scontentezza mia, la delusione mia, la rabbia tutta mia, il ribrezzo per quel mondo e quelle persone tutto mio, ecco che ho potuto abbandonare istantaneamente l’idea che le cose sarebbero cambiate e sono passata all’idea che il cambiamento potesse venire solo a partire da me.
il passaggio dalla ‘cultura degli alibi’, come la chiama appunto velasco, alla responsabilità sta essenzialmente in questo. togliere la convinzione che il problema sia fuori di te (nelle persone, nelle cose che capitano, nella congiuntura economica….) e riflettere su quale sia il tuo problema, il problema dal tuo punto di vista. così riformulato, il problema è tuo e puoi magicamente chiederti: ‘e mo che cosa faccio io?’.
io alla fine ho cambiato lavoro! non nego, a un anno e mezzo di distanza, difficoltà, paure, cose da sistemare, conti da far crescere. e non nego una felicità, una soddisfazione, un sentirsi utile che mi ripagano di tutte le incertezze.
‘non cercate colpevoli, cercate soluzioni’ (citaz.) nella vita e quindi anche al lavoro!
buon primo maggio